Federico Tavan , il poeta che se ne andò su una croce diversa,

Un ricordo di Federico Tavan , il poeta che se ne andò su una croce diversa, alcuni anni fa, mordendo i chiodi.

di milena magnani

(tratto da Nuova Rivista Letteraria, ed Alegre n. 9 maggio 2014)

 

Il poeta delle Pantiane, il genio folle e anarchico che credevamo di avere inventato e che invece  ci era sfuggito di mano.

 

Sì ‘e soi jò                                       Sì sono io

Inventât da vô                                 inventato da voi

Ma dopo è ve soi s’cjàmpât            ma poi di mano vi sono sfuggito

 

Se ne è andato nel novembre di pochi anni fa Fedrico Tavan,  nel novembre di un anno sghembo, è sceso dalla sua naf spazial, da quel suo mondo barricato ed istrionico dentro cui aveva dato vita alla sua incredibile poesia.

Se ne è andato nel silenzio, un silenzio che aveva cominciato ad abitare da qualche tempo, perché lo dice chi l’ha conosciuto, che non parlava più, Federico, anche nelle situazioni pubbliche se ne stava in disparte come se gli si fosse spento qualcosa dentro.

Un finale così lontano, così avulso da quel 1994 in cui, carico di vita, lo ricordiamo quando sbarcò a Bologna una sera, per presentare le sue poesie in lingua friulana al Link, come esponente di quel collettivo politico che era nato intorno alla rivista friulana Usmis.  Era una parte di quel movimento, Tavan, di quel pensiero che vedeva nella centralità della lingua friulana, uno  strumento di riappropriazione  e di lotta contro una cultura di regime omologante.

Scese dalla macchina con una mortadella in mano, quella sera, nel parcheggio di un condominio, periferia nord,  cercando con lo sguardo chi lo avrebbe ospitato e, incrociandone gli occhi immediatamente  cominciò a presentarsi gridando a squarcia gola : “io sono Dio!!!!” un grido, un barrito talmente potente dopo il quale, tempo pochi minuti, arrivò inchiodando la  polizia, con i lampeggianti accesi, chiamata dai condòmini preoccupati.

Era questo Federico, un fuoco, un temporale, che poteva anche incutere timore, perché portava dentro una  follia che non si lasciava addomesticare.

 

Dio ha tanti nomi: una foglia, un merlo, un pôr biât ( un povero disgraziato)

 

Era una forza incontenibile che esplodeva di poesia, di verità, di dolore e di sole.

Ringrazio la mia strega e quelle successive
che m’hanno dato occhi color della terra e del grano
simili a quelli di nessuno.
Ringrazio la solitudine che m’hanno dato
per diventar poeta.
Ringrazio la pazzia che mi ha permesso di restare me stesso.

 Eppure è  sceso muto, dalla naf , perché tra l’energia impetuosa di quei momenti e  l’oggi deve essergli successo qualcosa, qualcosa che forse è solo riconducibile alla parabola normale di ogni vita, al declino possibile delle energie creative, oppure è da andarsi a  ricercare dentro le logiche di un sociale che non sa valorizzare le sue perle rare, un sociale che tritura, e che di ciò che ha forza e ha decoro, mastica e mastica fino a restituire un bolo.

Mi colpisce infatti una lettera scritta negli ultimi anni ad un amico e riportata nel bel libro “Augh!” Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2007 Pordenone, nella quale Tavan scrive:

ho conosciuto centinaia di persone ( metà delle quali assolutamente infrequentabili…) E poi mi sono rotto i coglioni della poesia, è arrivata la nausea delle parole, scritte e no, e delle serate, che mi erano diventate insopportabili. Le ultime poesie lette in pubblico le leggevo con conati di vomito.

Penso quindi che io devo farmi i cazzi miei, anche a costo di isolarmi definitivamente. Ciao e auguri a te e famiglia.

Mi colpisce, sì, leggere queste parole scritte per mano di chi un tempo diceva: io con la poesia ho sempre avuto un rapporto carnale (de cjar):non ho vinto premi ma che godimento. (p.104)

 

Sì deve essere subentrata una delusione esistenziale in lui che un tempo scriveva:

Io scrivo di notte per addormentarmi. Scrivo perché mi piacciono le parole: albero, cane, fagiolo, zucca…Io le parole le mangerei. (p:108)

 

Un’interruzione, uno scarto che si declina anche nelle forme del suo sguardo più politico:

 La mia poesia?  E’ un temporale, girare per le strade e prendere a pugni il nulla… avevo tante speranze ma: 

Democrazia

Non è successo nulla

ragazzi:

continuate a ballare….

 Non è successo nulla

ragazzi:

continuate a comprare…

(p.109)

Una delusione che forse è un po’ tutt’uno con questo scendere dalla vita  alla chetichella,  senza il fracasso che gli era stato congeniale. E’ sceso dal retro, fuori dal palcoscenico nonostante il vitalizio concessogli  in nome della legge Bacchelli, vitalizio per  richiedere il quale si erano mossi nomi noti e prestigiosi del panorama intellettuale come Carlo Ginzburg, Peter Handke, Claudio Magris, Jacques Le Goff, Erri De  Luca, Marco Paolini, Predrag Matvejevic, Carlos Montemayor, Mario Dondero, Paco Ignacio Taibo II,  nomi che avrebbero potuto per rimando restituirgli   un po’ di visibilità fuori dai confini regionali, ma nonostante i quali, è rimasto invece chiuso nella sua Andreis, a mormorare   nell’ombra.

Andrèes                                                            (Andreis)
Quatre cjases in crous                               Quattro case in croce
Se no tu fai ad ora a scjampâ                     Se non sfuggi in tempo
uchì tu devente vecje e tu mour                 qui diventi vecchio e muori
Un po’ de prâtz                                          Qualche prato
dos tre montz                                              due tre montagne
se no tu scjampe pì.                                    Se non sfuggi, non sfuggi più
tu devente Andrèes:                                    diventi Andreis

.

 

 

Non è stata una vita facile quella di Federico.

Dal giorno in cui, ragazzino, cresciuto in un piccolo paese della Valcellina, in un contesto famigliare particolare e pregno di superstizione, non regge la morte della madre e viene internato in manicomio, esperienza dopo la quale avviene il suo incontro con  la poesia.

 

Maledeta chê volta                                 Maledetto il giorno

Ch’ài tacât a scrîve                                 in cui ho cominciato a scrivere

No parceche                                           non perchè
al é mal scrîve                                       sia male scrivere
ma parceche                                           ma perchè

era maledeta chê volta                           era un giorno maledetto
che ere belsoul                                       quello in cui ero solo
e vaive                                                    e piangevo
e par chist                                               e per questo
‘e scrivêve.                                             scrivevo.

( “Da màrches a madònes”, edizioni Biblioteca dell’immagine,  Pordenone, 1994)

 

Era  un poeta, un poeta vero, un uomo che attraverso versi rigorosamente in lingua friulana riusciva a riappropriarsi del mondo. E urlava impetuoso il suo sguardo diverso sulle cose, il suo modo di costruire   un senso radicalmente capovolto. Maestro di una pratica non certo comune  che è quella  di tentare un punto di contatto tra  la propria profonda ferita esistenziale  e un mondo che solo all’apparenza ti sa accogliere, un mondo che  sotto le facciate delle fasulle  politiche includenti è feroce, e  non risparmia un prezzo ai diversi, ai buoni, ai meno corazzati della storia.

 

E soi al poeta de li pantianes                  Sono il poeta delle pantegane

ch’i me impaltamèa li mans                 che mi infangano le mani;

(…)

‘E cjante de lour                                   Canto di loro
al glac’ de li mans                                il freddo delle mani,
la fievra tal cjâf                                    la febbre nella testa,
 al silenziu de la vous                           il silenzio della voce,
 la fadìa dei péis                                   la fatica dei piedi,
 li lagrimes muartes                             le lacrime morte,
‘ l uvier dei cojons.                               l’inverno dei coglioni.
Pantianes iešudes                               Pantegane uscite
da dute’ li gleisies                              da tutte le chiese
da dute’ li cjases                                 da tutte le case
da dute’ li ostaries                              da tutte le osterie
a robâie un meil frait                          a rubare una mela marcia
a l’imondizia                                     all’immondizia.

(da Màrches a madònes , Biblioteca dell’Immagine e Circolo culturale Menocchio, Pordenone 1994)
Se ne è andato lasciando una strana energia interrogativa  e anche un senso di irrisolto: già perché credo di non essere la sola a domandarsi dove collocarli, adesso, quei suoi versi che scuotono e in certi casi sono come schiaffi e fanno avvertire  un mozza fiato, una percezione di quanto sia ingiusto e insanabile il destino quando esplode.

 

A ‘nd’è muartz                   Ne sono morti

Ch’i vaiva                          che piangevano

Ch’i no voleva                   che non volevano

Ch’a iè desplaševa             che gli dispiaceva

 

A ‘nd’è muartz                     ne sono morti

Miei de mê                           di migliori  di me

Ch’i vaiva                            che piangevano

Ch’i no voleva                     che non volevano

Ch’a iè desplaševa              che gli dispiaceva

 

A ‘nd’è muartz                   ne sono morti

Pi žovins de mê                 di più giovani di me

Ch’i vaiva                           che piangevano

Ch’i no voleva                    che non volevano

Ch’a iè desplaševa              che gli dispiaceva

 

Perché Tavan  è stato un folle che si è interrogato lucidamente sulla follia, su quella follia che lui considerava una combinazione di dadi maledetta, che può cadere per caso sul tavolo verde di ogni vita.

E non a caso quando si descrive in volo sulla  nave spaziale descrive quella condizione della mente che lo fa essere irriducibilmente da un’altra parte, “ Lassâme stâ, ‘E soi su la nâf spaziâl. ‘E scjampe, e al mont lu jôt lontan”Lasciatemi in pace! Sono sulla nave spaziale. Fuggo e il mondo lo vedo lontano.

E io infatti lo immagino contro vento, alla guida del battello dei poeti di ogni tempo, condottiero della nave dei folli, degli ultimi, dei perdenti, marinaio di coperta, che declama  una   poesia che  scavalca la pochezza dell’oggi e sovrasta e contrasta  le onde di un sociale svilente  e sbatte sotto la plancia e grida che:

 

a no se vent               non si vende

la vua da sgorlâ         la voglia di volare!

 

Forse ha ragione chi sostiene che dopo Pasolini c’era lui, Tavan.

Anche se lui, Tavan, in verità non amava posizionarsi nel  mondo per gerarchie, per lui anarchico nel più profondo del suo animo, tutto era a distesa, una distesa di vissuto ingiudicabile,  perché così è lo  sguardo di chi  si è addestrato alla vita dentro  un esperienza difficile, prima dentro i muri di un manicomio e poi portando addosso lo stigma di un eterna alterità.    E’ uno sguardo che toglie il velo, toglie il belletto, scopre le  ombre, sì, ma poi  assolve, assolve tutti:

assolve Giacomina:

Giacomina, mia finta madre. Ti amo nonostante tu mi abbia maledetto. Ucciso tutte le galline nel pollaio e offerto caramelle avvelenate.. hai solo fatto il tuo dovere di strega e ha scelto me. Alleluia.

Assolve i compaesani:

Andreans           Andreani

Biei e brutz        belli e brutti

No séi cjatîs:        non isete cattivi:

‘e sei.                  Siete.

E’ stato un uomo autentico, Federico, uno che della sua contrapposizione al sistema aveva fatto una  pratica quotidiana, concreta, biografica:

Mio padre va a denunciarmi ai carabinieri perché non volevo fare il militare. Ho rischiato la galera.

Meno male che poi ho baciato il capitano in bocca e anche lì ho rischiato la galera. P 99

 

Una contrapposizione al sistema che passa anche attraverso la scelta linguistica di esprimersi nella propria lingua madre, il friulano di Andreis, come sfida a una cultura normalizzatrice e alle regole dei salotti accademici. Una scelta linguistica che  non gli impedisce di certo di mettere in campo denuncie che scavalcano i micro mondi territoriali,  per farsi espressione di  una condizione umana universale e senza età.

 No stéi domandâme ce tanç ans che ài     Non chiedermi quanti anni ho
Ài i ans                                                     Ho gli anni
de Pasolini e Leopardi                             di Pasolini e di Leopardi
del passero solitario                                  del passero solitario
e de Silvia,                                               e di Silvia
dei fugulins                                             delle lucciole
ch’i no clarìs pì,                                      che non rischiarano più
al cjant dei crics.                                     il canto dei grilli
Ài i ans                                                   Ho gli anni
de un nin                                                di un bambino
che la mestra.                                         che la maestra
à trat davour la lavagna                          ha cacciato dietro la lavagna
parceche al era                                        perchè era
cjatif e brut.                                            brutto e cattivo
Ài i ans                                                   Ho gli anni
de un Jesu Crist                                      di un Gesù Cristo
ch’a no’l puarta                                     che non porta
nissun lare                                              nessun ladro
in paradis                                                con sé in paradiso.

Cràceles cròceles (Circolo Culturale Menocchio 1997)

 

E’ stato difficile per chi l’ha incontrato, non farsi contagiare da  quel suo spasmodico  sogno di vivere, di quel parlare  a lampi,  di quel farsi porta voce di chi ha le mani affondate nel fango, che partivano dalla gosâ, la fogna, da quel “basso” che tanto sentiva parte di sé, e che in fondo in fondo era il suo habitat poetico.

 

La fogna a me plâs              la fogna mi piace

parceche  éis in bas             perché è in basso

come ‘l infièr.                     come l’inferno

 

quel basso che lui sapeva  di  condividere con tutte le persone senza  storia, con tutta quell’umanità che per biografia ha solo  le  mazzate ricevute dalla vita. E  infatti, non si stancava di ricordarlo a tutti come un monito:

Al destìn de un om                Il destino di un uomo

Al podeva capitâte anç a ti          Poteva capitare anche a te
nasce t’un pegnatón                     di nascere in un pentolone
tra žovàtz e žùfignes                     tra rospi e intrugli
de stries cencja prozes                   di streghe senza processo
e al dolour grant de ‘na mare.        e il dolore grande di una madre.

 

Me soi cjatàt a passâ                      Io mi sono trovato a passare
de chê bandes.                                da quelle parti


Ho chiesto al  poeta Raffaele bb Lazzara, che ha  conosciuto Tavan all’epoca dell’esperienza del collettivo Usmis e che io considero uno degli eredi di  quel modo del tutto peculiare di stare dentro la lingua e dentro la poesia, di chiudere con una sua riflessione.

E lo ringrazio per avermi inviato queste parole:

 

Federico Tavan , se voleva, sapeva farsi ascoltare.

Sarà che diceva cose che nessuno si sarebbe sognato di ignorare.

Sarà che sapeva come dirle e come scriverle, le cose che voleva dire.

E sapeva in quale lingua scriverle, nella sua, che dopo tanti anni è anche un poco la nostra … o no?

Federico Tavan è stata una intelligenza singolare che ha indicato luoghi non comuni e aperto inedite visioni sulla vita ma, direi, soprattutto sulle ipocrisie della nostra società, e, in particolare di certi ambiti e sistemi.

Il mio incontro con lui mi ha radicalmente cambiato la vita e mi ha dato prospettive divergenti sulle quali ragionare.

Qui non parlo di un dato estetico, non solo almeno, quanto di un dato profondamente politico.

E non solo e non tanto perchè Tavan era un proletario orgoglioso di esserlo e dichiaratamente anarchico ma perchè tutta la sua vita e il racconto che ne fece fra poesie, lettere ed altri scritti come le sue memorabili performances ed il suo ultimo silenzio, lo sono.

La sua poesia non aveva nè ha bisogno di esegeti, critici letterari: le sue parole sono chiare, dirette, si spiegano da sole.

Parole autonome nel discorso .

Autonome nel linguaggio, e nella lingua.

E’ stato triste vedere quest’uomo, nonostante le sue reiterate denunce anche pubblicate da chi evidentemente non ne comprendeva il significato, è stato triste vedere questo nostro maestro e complice, questo compagno di giochi infuocati, affondare nel vuoto di contesti sociali e culturali a lui estranei, tanto da scegliere, infine, il silenzio.

Era il più grande fra di noi e nessuno ha avuto il coraggio di proteggerlo, forse per rispetto, per pudore, ma la vacua dabbenaggine delle conventicole provinciali l’ha portato a soffocare nel silenzio.

Si, è stato triste vedere questo intelligentissimo ermeneuta della nostra pochezza culturale su ogni prospettiva pedagogica altra, libertaria, autonoma, venir depotenziato del significato delle sue stesse parole.

Depotenziato del suo pensiero creatore di significati liberati e connessioni straordinarie.

Depotenziato da coloro che forse, volendo salvarlo da sè stesso, hanno innescato nel suo straordinario fisico sovversivo la depressione.

Le sue parole, comunque sono ancora lì, per tutti.

( Raffaele BB Lazzara)

 

Grazie Raffaele, grazie Federico,

noi continuiamo a volare, ancora duemila anni e saremmo arrivati al sole.

 

 

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