Intervista a Sergio Rotino

Riportiamo qui la bellissima intervista uscita sulla rivista di poesia
Versante Ripido nel numero di settembre 2017

Cantu maru, intervista a Sergio Rotino
a cura di Claudia Zironi.

Il bellissimo acquerello di copertina di Cantu maru, opera di Gio.Batta (Giovanna Battagin), con i colori del fine vita floreale e trasparenze fantasmatiche tra le quali si intravede un bosco invernale, predispone il lettore a una quieta sospensione spirituale.
Poi arrivano i versi di Cantu maru e il mondo si capovolge. Sergio Rotino lo investe di dolore, di rabbia sopita, di domande irrisolte, di morte, di spine, di neri e di rossi, di cori da tragedia greca, di singhiozzi.
Cantu maru di Sergio Rotino, uscito nella collana Rosada delle edizioni Kurumuny a luglio 2017, è un libro capace di sconvolgere con i suoi ritmi sincopati, con le sue parole rotte, con la sua lingua che viene da lontano e che ci affonda nell’abisso emotivo della grecìa salentina.
L’autore in un precedente numero di Versante ripido ci aveva fornito un “assaggio” di questo lavoro accompagnandolo con alcune sue parole introduttive (http://www.versanteripido.it/la-conoscenza-indiretta-le-cose-rutte-di-sergio-rotino-salento/).
Vorrei ripartire da lì, dopo avere potuto apprezzare l’opera nella sua completezza, proponendogli alcune domande per approfondire la comprensione dell’opera.

Sergio, ben tornato su Versante ripido!
Entriamo nel vivo (e in tutta la morte) di questo tuo scritto in versi discorrendo de l’idioma delle origini. Diceva Zanzotto: “L’idioma è la base verbale per cui l’uomo riconosce sé stesso, trovarsi dentro un idioma vuol dire trovarsi nel proprio io, self. Quindi idioma è tutto ciò che appartiene ad una singola persona ma soprattutto ad un gruppo che è fortemente coeso, tanto è vero che basta spostarsi anche da un villaggio all’altro e le parole non sono più le stesse”…

Grazie a te e a tutti voi di VR per avermi invitato ancora una volta.
Mi parli di idioma attraverso Zanzotto e non posso che essere d’accordo. Ma quello che ho usato in Cantu maru è un idioma assemblato in vitro. Non il salentino parlato a Lecce e dintorni, ma un montaggio di parole, di termini provenienti da una zona più vasta, che comprende anche il brindisino, la zona più a Sud della provincia tarantina e altro ancora che appartiene ai dialetti della profonda provincia leccese. Il tutto perché non ho mai avuto un dialetto mio, non l’ho mai parlato a causa di varii divieti familiari e poi scolastici. Ho più che altro mantenuto dentro me i suoni di molte parole. Nemmeno la cadenza, unicamente i suoni. Da lì sono partito per ricostruire un discorso, diciamo “intimo”, il più intimo possibile, su una perdita definitiva, che è anche o soprattutto perdita di affetti e radici molto più importanti della stessa lingua con cui le propongo.

Componendo questo lavoro ti sei sentito di più musicista (batterista magari), antropologo o poeta?

Bella domanda. Il ritmo e la tensione sono due elementi centrali in Cantu maru. Di sicuro la percuttività di alcuni passaggi diventa la traccia preminente, il pattern attorno a cui si costruisce tutto il resto. Però questa è, rimane una raccolta di poesie che voleva arrivare a una intimità estrema. E niente come il dialetto me lo consentiva. Quindi ho scelto il dialetto per arrivare allo stomaco di quanto volevo dire. Antropologo? No. E nemmeno filologo. Ci sono troppo “errori” nell’uso di un dialetto che, ripeto, è reinventato a orecchio per potermi arrogare vicinanze con simili figure.

Ti ritieni un “poeta di ricerca”? Che senso ha per te questa definizione?

Non ha nessun senso. Scrivo così perché cerco una prossimità estrema con quanto mi prefiggo di raccontare. E chiedo uno sforzo da parte del lettore. Non voglio stia comodo, pantofole ai piedi, spaparanzato in poltrona.
Se poi per “ricerca” intendiamo il lavoro dei musicisti, per esempio, ecco diciamo che tendo a “sperimentare” strade laterali a quanto già mi picco di saper fare. Insomma qualcosa che dovrebbero saper far tutti, che dovrebbero fare tutti, per allargare i propri orizzonti. Questo al di là che si ami e si pratichi poesia lirica, epica, sperimentale o quel che sia.

I tuoi versi sono scevri di lirismo in senso stretto ma Giacomo Debenedetti credo che ci troverebbe molti spunti intimi dai quali partire per condurre un’indagine critica post-freudiana.
Quanto la tua esperienza personale viene riversata nell’arte?

Intendi il biografismo? Innegabile che da lì si parta. Innegabile che in Cantu maru la dose di biografismo sia decisamente più alta che in Loro, dove anzi era attentamente evitata. E però l’autobiografismo usato in Cantu maru tende all’astratto, a mollare le àncore che lo legano al dato cronachistico personale. In questo, sì, Debenedetti troverebbe spunti per una analisi postfreudiana.

     

Per concludere: che futuro auguri a questo tuo libro?

Che qualcuno lo legga?

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