Intervista a Fabrizio Lombardo


 Disvelare il contemporaneo

 Intervista a Fabrizio Lombardo, autore di  “Coordinate per la crudeltà”, Collana di poesia Rosada, ed. Kurumuny ,2018

a cura di redazione Collana di Poesia Rosada

Chiacchieriamo con Fabrizio Lombardo partendo da un semplice quesito circa la  struttura del suo ultimo libro  per poi cercare di approfondire i percorsi e  le origini della sua poesia, tentando di coglierne i fondamenti politici. 

Coordinate per la Crudeltà è diviso in 5 sezioni, che sono i capitoli attraverso cui si sviluppa il tuo discorso. Perché hai sentito il bisogno di fermare il discorso poetico in capitoli rinunciando a un unico flusso di visione? Si può parlare di una tua poetica che si sviluppa per quadri?

La scelta è nata principalmente dal tono che caratterizza le diverse sezioni. Il libro ha certamente un’intenzione poetica comune all’interno delle cinque sezioni, un filo rosso, – se vuoi chiamarlo così,- dettato da un unico sentire che trova espressione in ambiti diversi, il contesto in cui siamo immersi, le relazioni di cui siamo parte, la riflessione personale, con conseguenti spostamenti di intonazione: più espressiva, più intima e riflessiva, o dialogica, e uno sguardo più politico.

Si potrebbero chiamare variazioni o movimenti, pensando al linguaggio musicale, altra arte che per me è fondamentale e costantemente presente nelle fasi di scrittura.

In più mi piaceva l’idea di creare rimandi tra una sezione e l’altra.

 Un flusso continuo, privato della cesura che inevitabilmente si crea fra una sezione e l’altra, avrebbe impresso alle parole e ai testi un carattere di compattezza che avrebbe finito col trasformarsi in appiattimento, perdita di valore e di profondità e movimento.

Parto dal titolo della tua raccolta, Coordinate per la Crudeltà, è un titolo davvero potente che suscita in chi lo legge l’idea che tu, con la tua poetica, sia disposto prima di tutto a fare un coraggioso esame di realtà, a tuffarti nella durezza del mondo e dei sentimenti senza rete di protezione, quasi che la poesia possa essere l’unico viatico capace di disvelare ciò che di solito si tiene a lato o fatica a trovare le parole. Cito un tuo verso:

(…) Dove non trovo le parole, incido

 con la penna. Faccio un segno sul bordo/separo

la radice morta dalla pietra.

“Coordinate per la crudeltà” è il titolo di una delle sezioni, e corrisponde a quello che hai detto: la volontà di portare sino alla fine l’azione di disvelamento, di andare oltre la superficie della idea di chi siamo, delle relazioni che intratteniamo, dei paesaggi e delle attività del nostro quotidiano, per cercarne il significato nascosto, o metterne in evidenza le contraddizioni, il vuoto di senso che ne è all’origine. Poi la scelta di intitolarlo Coordinate per la crudeltà nasce certamente dalla forza, dalla potenza che deve avere un titolo per arrivare al lettore.

Il lavoro che ho voluto condurre in questo libro è quello dell’anatomo-patologo, non mi interessava fermarmi alla descrizione dei sintomi, ma è ovvio che intervenendo su una materia viva, quel tipo di operazione diventa lucida azione di crudeltà, non sadica, però certamente impietosa.

Il titolo del libro in realtà è stato a lungo in competizione con il titolo di un’altra sezione, “False partenze”, che ugualmente conduceva al senso della riflessione, della valutazione, dei bilanci, ma indirizzava il significato della raccolta più verso la consapevolezza della precarietà dei risultati delle analisi e delle valutazioni condotte, un elemento che è certamente presente, ma è solo uno degli aspetti della ricerca condotta attraverso il libro.

L’idea di incidere la realtà utilizzando la parola come un bisturi è parte della mia poetica da sempre. Con questo libro ho provato ad andare oltre l’enunciazione di una intenzionalità poetica e la forma testuale, l’ho applicata materialmente e sistematicamente a quello che mi/ci circonda, a ciò che fa parte del contesto, le coordinate del paesaggio in cui ci muoviamo paesaggio fatto di persone, luoghi, libri .

Pensi che si possa legittimamente parlare di un’anima politica della tua poesia? Nella sezione Retail si descrive un modello consumistico/liberista che è messo a nudo nella sua forma di asettica disumanità, una denuncia che tu  esprimi mostrando a lievi pennellate le logiche che lo sottendono e  che  a fine giornata lasciano un amaro, quello dei codici economici, articolando i quali  l’umanità sembra dover soccombere.  Cito un passaggio:

Basta sottrarre l’acquistato al venduto e ricavarne il profitto.
Il conto economico in perdita della nostra vita.

Coordinate per la crudeltà ha certamente una forte connotazione politica la poesia è “politica” nel senso di un mezzo che analizza l’esperienza del vivere e le sue contraddizioni. Questo libro vuole porsi al centro, in un crocevia tra l’esistenza, il vivere privato e singolo e il flusso di ciò che ci attraversa. Volevo raccontare l’onda d’urto che ci travolge quotidianamente, nelle piccole cose ma anche nella complessità del vivere sociale. Analizzare il conflitto che si genera nel cuore privato delle nostre case o nello spaesamento del paesaggio – reale o virtuale – iper consumistico che ci circonda.

In questo senso credo che la poesia debba essere messa al servizio della nostra contemporaneità. Renderla gesto politico. Specchio del nostro presente.

Noto comunque che c’è un’attenzione della poesia contemporanea alle nuove condizioni dell’essere e del lavoro e a me sembrano segnali importanti e positivi. Unico rischio – che la migliore letteratura italiana aveva già corso anche cinquant’anni fa, all’epoca gloriosa del dibattito su “Letterature e industria” lanciato da Vittorini – quellodi lasciarsi inghiottire dalla materia, diventare iper-realisti. Mi sembra però un rischio che vale la pena di correre. Ci sono libri e autori(Francesco Targhetta, Andrea Inglese, Fabrizio Bajec, Marco Giovenale, Vincenzo Bagnoli)usciti in questi anni che mostrano questa volontà, questo sguardo.

Nella sezione con cui si apre il libro “false partenze” appare potente la tua idea dell’individuo contemporaneo.Per quanto ci sia  in tutta la tua poetica  una dimensione autobiografica, quello che a me colpisce di più è la capacità di fare del tuo sentimento un codice di decodifica della complessità del mondo, attraverso cui mettere a nudo  un sociale dove tutto  è sempre possibile altrimenti, dove  la dimensioni liquida dell’esistenza lascia poco spazio alle grandi narrazioni, ai grandi gesti, alle identità solide  e riconoscibili.  Ti sei accorto di aver creato l’ identikit di tutti? La così detta “autobiografia altrui”, in cui  è possibile che il lettore continuamente si riconosca?

Credo che tu mi attribuisca un valore che non penso di avere. Quello che accade è che scrivo di persone immerse nella contemporaneità, di me come di coloro che quotidianamente incontro o ascolto, e i testi prendono spunto da situazioni comuni. Forse sta in questo la risonanza, la familiarità con la propria esperienza che tu dici che il lettore avverte. Non cerco la situazione poetica da mettere sulla pagina. Credo che la poesia possa descrivere e descriverci esattamente per come siamo, per come ci sfioriamo. In questo, allora, può avvenire che l’io che si incontra sulla pagina diventi un io altrui, un io collettivo.

C’è un’immagine che mi è rimasta impressa nella sezione “ i giorni di pioggia”  è nei versi in cui il tuo ruolo di  padre si evidenzia in un gesto affettuoso che deve mediare con il mondo consumistico di oggi, un affetto che ti costringe a scendere a patti con la realtà, attraverso l’atto di asciugare le scarpe firmate di un figlio, quelle scarpe senza cui oggi a scuola risulta difficile essere inclusi. Io l’ho trovata un immagine così esaustiva della condizione contemporanea da essermi commossa, e da averne concluso che in fondo la tua poesia è anche questo: la ricerca di quell’immagine, scarnificata all’osso, che contiene in sé la legge base del tutto.

La poesia è potenzialmente uno dei linguaggi più contemporanei che abbiamo a disposizione.

Ha la velocità di certi media, ha la forza e la capacità di sintesi dell’immagine:lo scatto della fotografia, la capacità narrativa e descrittiva del cinema, l’allusività della pittura.

Un po’ in tutti i miei testi, ma in particolare in questo libro, ho lavorato molto di sottrazione, fino a creare immagini talvolta sospese, descrizioni fatti di piccoli dettagli, frammenti di parole e di gesti, semplici metafore o, come nel caso che tu citavi, l’accostamento di un dettaglio ad una riflessione, o constatazione, come dovrei dire meglio. Del resto non poteva essere diversamente alla luce di quanto ci siamo detti sino ad ora sull’intenzionalità poetica di “Coordinate della crudeltà”.

Nella sezione A1-A14 ci sono la strada, il movimento, le code, la nebbia, tutto quel tempo residuale della vita che pare anche un tempo dell’introspezione, del lasciar decantare, una dimensione che sulle prime pare scomoda ma poi arriva a colpirci per quanto invece ci contiene.

Il paesaggio agisce su di noi. Nel libro diventa un elemento che scatena la riflessione e allo stesso tempo ne è l’oggetto. È presenza e personaggio.

In quella sezione, che insieme a Retail è quella più vicina al contesto reale, attraversare il nostro tempo significa farlo anche in senso fisico, percorrendo i luoghi della nostra vita/non-vita quotidiana.

E inevitabilmente il paesaggio, la strada, diventano spunto di riflessione; la dimensione del viaggio in solitudine, per chi come me è costretto a viaggiare spesso, sia in automobile o con altri mezzi, è forse il solo spazio di riflessione che ci è concesso, il nostro bozzolo di silenzio e “meditazione”.

L’azione poi fatta anche su quei testi di sottrazione e scarnificazione li ha resi, spero, ancora più stranianti e al tempo stesso sovrapponibili con le esperienze del lettore.

Questo tuo libro esce dopo un lungo periodo di silenzio, una pausa di quasi 10 anni, mi colpisce questa tua dimensione rispetto ai tempi, in un epoca dove vige la regola che per rimanere visibili e in dialogo con l’ambiente culturale si debba produrre scrittura  a ritmo esponenziale, la tua posizione va in controtendenza nazionale. Di che tipo di pausa si è trattato? E quanto influisce sulla tua poesia la capacità di non farti travolgere dal morso della iperproduttività?

In realtà non ho mai smesso di scrivere, anche solo abbozzi, ma perché la scrittura si condensi in un libro occorre che ne emerga con evidenza un progetto. Talvolta, almeno nel mio caso, il progetto emerge dai testi stessi. L’esigenza espressiva che li genera è dettata da un’intenzione, che non sta a monte della scrittura ma a valle. Non si tratta di pause dalla scrittura ma del tempo necessario perché l’intenzionalità poetica comune ai testi si mostri con la chiarezza sufficiente per attrarre altri testi e trovare con essi una forma.

Forse non avverto la necessità di rimanere visibile perché il mio dialogo con il mondo culturale non si realizza solo attraverso le mie pubblicazioni ma con modalità molto diverse fra loro: collaboro alla redazione di Versodove, sono un avido lettore di testi altrui, seguo per professione l’ambito librario, seguo per piacere e lavoro i festival.

Credo che sia molto positivo per me mantenere la giusta distanza dall’istanza di visibilità se intesa come iperproduzione o iperpromozione. Mi è indispensabile. Solo così riesco a trovare la giusta misura e forma per i miei versi.

Che cosa significa per te, aver conosciuto Roberto Roversi negli anni della tua formazione, e quale è il suo  lascito nella tua dimensione poetica?
Roversi è un intellettuale imprescindibile. Perlomeno questo è quello che penso. Quello che è stato per me. Lo è stato per il rigore di intellettuale, per la qualità letteraria, per quello che ha fatto per promuovere le scritture, per far crescere gli autori che gli si approcciavano, dando spazio a esperienze collettive, facendo rete, facendo fare rete.

Anche la volontà di attraversare altri ambiti artistici, la curiosità per altre scritture, in non avere paura delle contaminazioni sono lezioni che, dal mio primo incontro alla metà degli anni ottanta sino ad oggi, porto con me nell’attitudine non solo della scrittura ma anche nell’attività culturale che passa dalla rivista al lavoro che faccio per vivere.

Certamente la lontananza da certi percorsi ufficiali della storia e della critica letteraria lo ha reso un autore poco presente nelle antologie “ufficiali”.

Per quanto riguarda poi “Coordinate per la Crudeltà” il Roversi delle “Descrizioni in atto”è certamente un sottotesto progettuale, per quanto lontano per stile e struttura, molto presente e importante.

Quali sono i cardini motivazionali del tuo ricorso alla poesia. C’è a tuo parere un momento culturale di attenzione a questo linguaggio, un orizzonte per cui la poesia possa configurarsi come linguaggio in espansione  e in dialogo con i lettori  o è destino di questa forma espressiva quello di rimanere in una sorta di autoreferenzialità da sottosistema chiuso?

Provo a risponderti con un esempio, non so se riuscirò a rendere chiara la mia idea ma mi pare possa essere calzante.

La poesia ha il suo pubblico, un po’ come la fotografia d’autore. Questo non significa che l’immagine fotografica non abbia una vasta diffusione o che non sia largamente e comunemente praticata soprattutto oggi grazie alla tecnologia.

È indiscutibile che è uno dei mezzi di comunicazione per eccellenza del nostro tempo, ne siamo costantemente immersi, quello che manca a questa iper produzione di immagini è l’intenzionalità “artistica”, il tempo di lavoro e riflessione che un prodotto artistico richiede. Il progetto. Ci si accontenta della bassa risoluzione che sfocia nella bassa risoluzione dell’atto comunicativo. Della fotografia oggi è utilizzato il mezzo, la tecnica, in quanto strumento di comunicazione immediata, e lo stesso sta, meno rapidamente, avvenendo per la poesia, penso alla produzioni in rete, che diventa prodotto editoriale e fa entrare la poesia nella top 100 dei libri più venduti dello scorso anno. In quel tipo di scrittura in versi  l’istanza comunicativa è molto presente ed evidente ma non c’è nessun tipo di progettualità, nessuna riflessione artistica, nessuna intenzionalità ritmica o metrica che il verso necessariamente richiede. Sono forme diaristiche che utilizzano la struttura versificata del testo.

Non so dirti se la consuetudine con il verso, finirà per ampliare il pubblico della poesia o se, come sta avvenendo per la fotografia, rimarrà in gran parte esibizione o una produzione “pseudo-artistica”. Quello che è certo è che la poesia, più ancora della fotografia, richiede un tempo anche nella fruizione, e che raramente la poesia ha un livello di lettura “superficiale” di puro intrattenimento, senza poi dimenticare l’aspetto grafico, l’importanza dello spazio bianco come elemento di senso che caratterizza la scrittura poetica. Tutti questi elementi sono in netta contrapposizione con i tratti caratterizzanti il nostro attuale contesto culturale.

Tu sei tra i redattori e fondatori della bella rivista Versodove. Una bellissima rivista di letteratura e poesia. Ce la puoi presentare a somme linee?

Versodove nasce ad inizio degli anni novanta dopo un lungo dibattito e varie esperienze di fogli collettivi e organizzazione di reading ed eventi a Bologna, con l’idea di puntare l’attenzione sulla trasversalità dei linguaggi artistici, in particolare la scrittura, indagandola nei suoi aspetti più vari, preferendo al taglio accademico la scelta di portare l’Autore a prendere la parola in prima persona, attraverso interviste o interventi sulla propria poetica, sul proprio lavoro di scrittura.

Spirito che  anima ancora oggi la rivista.

Il progetto era essenzialmente basato sulla curiosità, sulla voglia di fare, sul desiderio di mettere a disposizione uno spazio in cui poter vedere pubblicati autori “giovani” che ritenevamo di qualità, a confronto con qualche autore più importante, anche qui con volontà dialogica.

Anche se erano ben presenti per noi le esperienze di alcune riviste storiche della nostra città, da Officina a Rendiconti – ed infatti il confronto e l’aiuto di Roberto Roversi prima di iniziare è stato fondamentale – volevamo evitare di farci chiudere in schemi e scuole.

Quello che a noi risultava chiaro era l’esigenza di confrontarci trasversalmente, con tutti, sul terreno delle scritture. Avevamo davanti un paesaggio testuale da indagare che si estendeva ormai dall’accademia all’avanguardia senza troppe discontinuità.  Volevamo quindi spostarci in avanti o di lato.  Ci sembrava  che l’unico atteggiamento possibile potesse essere quello di dare spazio ai diversi punti di vista, di fare insomma da cassa di risonanza per le molte voci, per le molte forme che stavano uscendo, lasciando fuori le polemiche ormai obsolete di scuole, gruppi, parrocchie. Questo atteggiamento ci pare ancora valido e, forse ancor più necessario, oggi.

A sorreggere tutto questo c’era, e c’è tuttora, l’idea che la letteratura debba confrontarsi anche con tutte le sue possibili contaminazioni, con tutti quei luoghi in cui la parola vive non solo come parola scritta, ma anche detta, recitata, cantata, tradotta, illustrata, fotografata. Confrontarsi con quello che avveniva anche fuori dall’Italia cercando sempre di avere autori tradotti con inediti.

Versodove dopo i primi dodici numeri cartacei è passata alla forma digitale, per poi ritornare,negli ultimi anni, ad avere di nuovo una forma cartacea. Si sente dire che le riviste cartacee oggi siano atti di coraggio, data l’evidenza della scomparsa dello spazio “riviste” nelle librerie, che cosa ha portato voi redattori a mantenere in vita questa esperienza culturale e  a tentarne persino il ritorno alla forma carta?

Ci siamo resi conto che la forma digitale toglieva forza e valore al progetto.

Rischiava di perdersi nel rumore di fondo che ormai è diventato lo spazio digitale.

Mantenendo la continuità con i primi dodici numeri, valorizzando scritture giovani/emergenti, con naturale inclinazione per la contaminazione delle discipline e un occhio particolare alla traduzione, che è diventata una delle sezioni più vive e interessanti della nuova serie, abbiamo deciso che la migliore forma possibile fosse la carta.

L’obiettivo che ci siamo dati è quello di fare un numero all’anno, lavorando il più possibile per presentarlo e diffonderlo.

Vorrei chiederti cosa pensi delle “scuole” poetiche contemporanee, ha senso usare questo termine? Tu senti di avere un appartenenza privilegiata a qualche contesto, senti che i luoghi delle tue appartenenze possano essere luoghi di identificazione  per uno scambio culturale più ampio?

Faccio fatica a parlare di Scuole, credo che abbia poco senso parlarne oggi. Mi rendo conto che siano ancora presenti ma forse sono più cerchie, gruppi,a volte legati da criteri geografici, a volte legati da un’autoreferenzialità di scrittura ma non vere e proprie scuole poetiche.

Preferisco la forza di un’identità libera da scuole e confini,da strutture limitanti, che sceglie di rivolgersi e relazionarsi all’esterno attraverso la propria voce, ben disposta a dialogare, anche a discutere e confrontarsi con le altre voci.

Grazie Fabrizio. 

Redazione Rosada

 

 

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