Recensione a “La sposa secca del muretto”
Casa/anima/memoria
Una lettura dell’ultimo libro di Daniela Liviello “La sposa secca del muretto”
di Remigio Morelli
Leggendo i versi di Daniela Liviello, si percepisce la loro lunga, lenta gestazione, come se la poesia avesse abitato sempre dentro di lei, chiusa e compressa nello scrigno delle sue timidezze, delle sue insicurezze, nella sua complessa e profonda interiorità, fino ad una maturità nella quale ha trovato lo spiraglio per dispiegarsi e per offrirsi.
Sarai catena
di te stessa al palo.
Una poesia pudica, che sembra chiedere scusa del suo svelarsi.
A piedi scalzi su vie nuove
amerò la terra che reggerà il peso
mi farò leggera
sarò preghiera
laverò i passi
chiederò perdono ai sassi.
Daniela racconta questa terra, di pietre, di vento, di mare, di sole, più surreale che reale, quasi un rudere sotterrato nel tempo, nel campo della memoria, sul confine tra passato e presente. Tutto è in questo rimando, in questa opposizione tra ciò che poteva essere e ciò che non è stato.
Figli di macerie antiche
consoliamo i giorni
puntelliamo le rovine
di tutto quello che poteva essere.//
scrutiamo fra le pietre
se ancora cresce un filo d’oro.
La poetica riporta alla sua terra, che poi è tutta la terra, metafora di un universo perduto. La memoria, come paradigma esistenziale, diventa per l’autrice la cura dal disincanto, lo spiraglio dal quale nasce la trasfigurazione lirica del presente.
Lo stilema che contrassegna questa raccolta è la casa, forse l’antica casa contadina dove è nata e vissuta nell’adolescenza, forse le antiche case dei paesi del sud, testimoni di una civiltà e di un tempo che si estingue insieme alla memoria degli uomini che le hanno abitate e del loro mondo. Quella casa antica, quasi un nido pascoliano, da cui si usciva per inseguire il sole sulla soglia, diventa l’archetipo, nella sua fissità metatemporale, di un nulla apparente che riassume il tutto di una terra, di una storia quasi dimenticata; una casa/anima/memoria da dove esci, se vuoi, con l’illuminazione del senso.
Verrai a trovarmi
nella mia casa fatta divani e tendine
Ti aprirò la porta
col mio corpo dismesso.
Andrai via sul tuo filo di luce.
Case e palazzi in declino, con le fessure sui muri dove “gramigna si avvinghia”, senza più i profumi, le graste, il basilico, la menta, il limone; dove un tempo “il vento si saziava di odori”, quanto bastava a saziare “una piccola fame”.
Con quella casa, con la poesia della sua memoria e delle memorie che essa racchiude,l’autrice si identifica, si fonde, diventa sguardo sul piccolo squarcio di cielo “velo azzurro di signora” tra le pareti alte del giardino, pietra lavata dalla pioggia, “sposa secca del muretto” a secco nella dolcezza di un estatico abbandono panico.
In questo sacrario della memoria fluiscono i simulacri degli affetti, aleggia la figura paterna.
ti ho visto arrivare.
Hai poggiato il carico.
Quaggiù la terra pesa.
La casa nel suo abbandono, nel suo carico di memoria e di senso, riflette il declino del mondo di fuori e traccia il perimetro dello smarrimento presente, di una innocenza perduta, di ciò che poteva essere e non è stato. Il destino di questa terra tradita, diventa dolente condizione esistenziale, che l’afflato poetico riesce appena a lenite. Sentimento della inessenzialità, dello spaesamento, della ineluttabilità del divenire, della disfatta.
Affondiamo in acque melmose
Navi in cerca di rotta.//
La terra è silenzio.
Tendendo l’orecchi, un breve respiro.
Il rifugio nella memoria, nella primordiale purezza dell’infanzia, in un mondo di innocenza in rovina, dove sopravvivono macerie di uomini, di luoghi, di natura.
Siamo nati in giorni di festa
al canto del gallo con la luna nuova. //
La piazza gremita.
Chiedeva. Parlava.
Ora ci sono porte sprangate.
Splende briosa la serratura novizia
sulla porta storta che si sdenta di risate
pensa e ripensa a quanta gente la sera
col fresco animava il cortile facendosi beffe
di una miseria tracotante.
Tronco spogliato
corpo sfogliato
tronco-corpo sfiorito.//
La mia terra è stanca
di giovinezza e fiorire.
È difficile ridurre l’ispirazione poetica di Daniela un una categoria prevalente. La sua tensione creativa è tracimante e lo si coglie nell’incalzare del verso, nella moltiplicazione dei rimandi di ogni lirica. Ma forse una costante è possibile individuarla, rivelata involontariamente dalla stessa autrice, sfuggita dalla sua penna sempre contenuta e controllata.
È il silenzio. Il silenzio governa l’armonia del verso e genera lo spazio dell’espressione lirica. Silenzio è sempre stare//
fresco rimanere riposo culla//
virgola di luna mani giunte ripartenza.
Silenzio è stelle una a una.
La poesia di D. Liviello è un evento lirico che si compie nell’emozione del lettore, dove spesso il senso è negato dalla magia del non senso. Dove la parola è mélos puro, dove il suono e la costruzione sillabica sovvertono la gabbia morfologica e sintattica. Dove l’illuminazione folgorante del verso, della parola contenuta e meditata, la fascinazione delle assonanze e delle dissonanze tessono la trama di un’emozione costante.
Si possono ricercare affinità, matrici, corrispondenze con l’universo poetico contemporaneo: il gioco è affascinante e perverso. La frequentazione sistematica dei modelli a volte può generare maniera, spegnere lo streben, l’immaginazione creatrice.
Ma qui si è generato un impasto nel quale le suggestioni, le influenze, le contaminazioni hanno prodotto il fatto originale e unico, la peculiarità poetica ed espressiva, l’esclusività linguistica. Uno stile e un linguaggio proprio, già compiutamente riconoscibile.