poesia in dialetto

Intervista a Sergio Rotino autore di Cantu Maru:
Appartengo a una generazione a cui è stato  vietato di parlare in dialetto.

1) Caro Sergio il tuo libro ha un titolo particolare, Cantu maru, un canto che già dal titolo si capisce che porta dentro di sé i suoni  di un esperienza linguistica particolare.
Di che cosa si tratta? È un dialetto? È una lingua che porta in un luogo in cui l’italiano non potrebbe portare? 

Sì, è un dialetto ed è una lingua. In questa raccolta ho usato la mia lingua madre: il salentino. Non è però un dialetto “puro”, filologicamente ineccepibile, per quanto riguarda la provenienza. Se la maggior parte delle parole provengono dal salentino urbano di Lecce, il resto (tutto il resto, che quantitativamente è cospicuo) ha a che vedere con una zona più vasta, in cui sono comprese le zone del basso brindisino e del basso tarantino. Appartengo a una generazione a cui è stato in buona sostanza vietato di parlare in dialetto, quindi mi sono rifatto al bagaglio di suoni, più che di parole, in mio possesso. Suoni non ancestrali, ma che provenivano dai luoghi, dalle persone che abitavano quei luoghi e di cui mi è rimasta traccia nella memoria. Sono partito da lì per ricostruire un linguaggio, una parlata, che non può essere assolutamente pura, e non lo vuole essere. Il suono della lingua salentina, con le sue asprezze, le sue dolcezze, è per me più importante del significato trasmesso da ogni singolo testo. Essendo oltretutto una ricostruzione, potrei arrivare a dire che è una lingua di mia costruzione, derivata dal salentino.

2) leggendo i tuoi componimenti poetici ci si trova davanti a una sorta di canto di pianto, vengono in mente quelle donne studiate da De Martino in sud e magia, quelle che si mettevano al capezzale dei defunti e piangevano in modo quasi rituale, c’è un rapporto tra la tua poesia e questa tradizione culturale?

No, in assoluto. Tutto nasce da una mia intenzione di salutare la figura di mio padre, di lasciarla andare. Ma non ho una “cultura salentina”. Il lavoro di De Martino ha fatto parte velocemente di un mio esame universitario. Il suo La terra del rimorso era nel piano di studi. Il mio rapporto con il suo lavoro antropologico finisce qui. Così come finisce qui il mio rapporto con le prefiche e quanto vi è di contorno. Ho vissuto pochissimo questi riti e di questi riti. Non me ne sono nutrito. Probabilmente per ragioni vicine se non identiche a quelle che mi hanno tenuto lontano dal dialetto. E poi c’è sempre da ricordare come io faccia parte di quella generazione del Boom, di quel processo di cancellazione delle forme “non urbane” appartenenti alla cultura autoctona.

3) In Cantu maru ci sono alcuni elementi che balzano all’occhio del lettore immediatamente. Il primo è la ripetizione. Il fiore, la bocca, il sangue, la terra si ripetono, ritornano per tutto il testo. Il secondo è il ritmo spezzato. Quel modo del tutto inusuale di spezzare la parola introducendola a fine verso con una sola consonante, è stupefacente. Ci puoi spiegare di che tipo di scelta si tratta?  Il terzo elemento è il modo di trattare il congedo, con figure anche crude, senza pietà per la carne, senza retorica, guardando la vita materiale che si deteriora… ci si aspetta una sorta di redenzione che però non arriva mai.

Potrei dirti che questo è un canto laico. Essendo tale, non ingloba l’idea di redenzione, così come intesa dal Cristianesimo. Quindi vi è liberazione, non redenzione né pacificazione. Liberazione dal dolore di una perdita, attuata attraverso l’accettazione di essa. Vi è lenta accettazione, ecco; un prendere coscienza del cosa avviene, del cosa è avvenuto.

L’idea della ripetizione, sia di parole che di sintagmi e di singole vocali o consonanti, ha due motivazioni. La singola lettera posta a fine verso indica la difficoltà a dire, la balbuzie che coglie quando l’indicibile ci si avvicina o ci tocca. Un indicibile che è dentro di noi, dentro la parola e può non combaciare con il suo significato anzi, non combacia quasi mai. La ripetizione di alcune parole fa parte del senso ritmico che tiene tutti i testi raccolti in Cantu maru. È una struttura tensiva soprattutto. Poi anche, a volte, una struttura anaforica, che riprende l’idea di inciampo, di inceppamento del meccanismo linguistico, la difficoltà a dire perché le parole ci si ingolfano in bocca, nella gola, nella mente. D’altro canto, sono parole-simbolo; rappresentano cioè un sistema simbolico, una rete di terrori e dolcezze, di rifiuti e accettazioni che stanno alla base del rapporto intercorso fra me e mio padre.

4) Tu sei un poeta con un’esperienza più che decennale alle spalle, cosa ti tiene legato nel tempo alle forme della poesia? Cosa c’è nella poesia in grado di accompagnare la vita di un uomo con così tanta continuità?

Consolazione. Mi spiego. La poesia, quella che scrivo, è per me consolatoria. Perché consolatoria risulta la sua capacità di mettermi davanti a quel che sono e a quel che mi accade. È quindi una modalità speculativa quella che trovo nella poesia, capace di farmi arrivare (non sempre) dove mi sarebbe altrimenti impossibile. È anche una vertigine, però. Bisogna controllarla, sapere quando tirare le redini.

Confesso che il solo pensiero del poter perdere la capacità di scrivere poesia, mi angoscia. So che prima o poi accadrà perché la parte creativa di ognuno di noi è a termine. Ma pensarlo mi manda nel panico.

5) Come definiresti la tua poesia? La si potrebbe inserire in una corrente poetica precisa o nel tuo percorso di ricerca attraversi più modi e più contesti?

Come la definirei? Beh, poesia. Poesia prodotta fra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo.

6) Quali sono i poeti che hanno innescato in te questa passione per la poesia?

Caproni e Pasolini

Lo sapessi… Non scherzo. Ho dei poeti di riferimento, ma non so quanto abbiano “innescato” in me la passione della poesia. Posso dire di esser partito da Umberto Saba. Ma certo è stato Giorgio Caproni il primo che ho amato e letto con maggiore attenzione. E subito dopo Franco Fortini, Giovanni Giudici, Gottfried Benn e dopo ancora Philip Larkin e poi Hans Magnus Enzensberger. Solo in traduzione i due autori tedeschi, aiutandomi col mio misero inglese per Larkin. In realtà sono sempre stato un lettore onnivoro di poesia (e non solo). Ho letto sempre ogni cosa mi passasse per le mani.

7) Oltre a scrivere questo bellissimo volume, ti vediamo anche come curatore dell’antologia poetica Parole Sante: puoi dirci in breve di cosa si tratta?

Parole Sante è un progetto antologico nato per sostenere un altro progetto, quello che fa capo all’associazione Orto dei tu’rat e allo stesso orto. Un progetto che ha subito vari incendi dolosi, capaci di distruggere tutta la flora (alberi, piante) che vi era stata impiantata. L’idea, non mia, è stata di produrre piccole antologie di poesia, invitando autori provenienti anche da altre forme d’arte a donare dei testi poetici inediti, così da finanziare l’acquisto e la messa a coltura di nuove piante.

8) Che cosa significa oggi per te il lavoro collettivo, un’antologia che parla a più registri e a più voci.

Significa ascoltare l’altro, o almeno sforzarsi di farlo. Significa mettersi in relazione con le parole dell’altro. Significa far risuonare le parole degli altri.

9) Se tu dovessi dire a un ragazzo perché leggersi un poeta… o perché provare a frequentare la poesia…

Non mi ci proverei nemmeno. Nessuna delle mie parole spingerebbe un ragazzo a leggere un poeta o a frequentare la poesia. Credo che debba essere una sua scoperta, un suo desiderio. Così come accade per le altre arti, non sono i consigli a convincere, ma la curiosità e una specie di improvvisa illuminazione. Se arriva bene, altrimenti si può solo tentare di leggere poesia ai ragazzi, in dosi omeopatiche, ma continue. Forse così è possibile ottenere dei risultati, anche inattesi.

Un pensiero riguardo “poesia in dialetto

  • 3 novembre 2017 in 09:33
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    Non ho ancora letto il nuovo libro di Sergio Rotino ma lo farò al più presto. Ho ascoltato però direttamente dalla sua voce la lettura orale di queste belle poesie, il cui ritmo franto, spezzato, disomogeneo mi ha fatto pensare a una operazione che nella poesia dialettale non era mai stata fatta: usarla come poesia sperimentale, sperimentare nuove possibilità fonetiche, espressive, stilistiche. In questo tipo di operazione a me sembra che Sergio Rotino sia un innovatore grandioso della poesia dialettale e ne esplori le possibilità finora mai percorse.

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